Anatocismo, prescrizione e onere della prova: La storia infinita dei contratti bancari

La Corte di Cassazione torna di nuovo a pronunciarsi su alcune questioni molto dibattute in materia di contratti bancari.

Una prima sentenza del febbraio del 2020, affrontando l’annosa questione della pratica anatocistica nei conti correnti di corrispondenza, riesamina i limiti di efficacia della Delibera CICR del lontano 9 febbraio 2000.
E’ noto che l’art. 120 TUB, mutato innumerevoli volte nel corso dell’ultimo ventennio, era stato a suo tempo modificato anche dall’art. 25, commi 2 e 3 D.Lgs. n. 342 del 1999, e prevedeva che la capitalizzazione degli interessi fosse legittima a condizione che: i) il CICR stabilisse “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria”, purché con la stessa periodicità del conteggio di interessi debitori e creditori; ii) che le clausole anatocistiche contenute nei contratti stipulati anteriormente al 22 aprile 2000 dovessero essere conformate alle indicazioni del CICR.
Con gli artt. 2 e 7 della delibera medesima è stata prevista la possibilità di adeguamento delle condizioni applicate entro il 30 giugno 2000, mediante pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e comunicazione scritta alla clientela alla prima occasione utile (comunque, entro il 31 dicembre 2000), salva la necessità dell’approvazione specifica del correntista, con perfezionamento di un nuovo accordo, qualora le nuove condizioni contrattuali avessero comportato un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate.
Ebbene, la Suprema Corte afferma oggi in maniera chiara, ma a distanza di oltre 20 anni, che l’applicazione da parte della banca della capitalizzazione trimestrale attiva e passiva ai rapporti pendenti all’aprile del 2000 costituisce una modificazione in pejus delle condizioni economiche applicate al cliente, per cui la semplice informativa generalizzata mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’adeguamento alla norma non era sufficiente a legittimare le modifiche al contratto, essendo invece necessario un nuovo accordo espresso tra le parti (nello stesso senso anche Cass. Civ. n.26769/19 e 26779/19).
Pur tenendo conto che la norma vigente è stata nel tempo radicalmente modificata, riteniamo che la decisione comporterà effetti significativi sulle controversie pendenti presso le Corti di merito.

Con altra sentenza del marzo 2002 la Suprema Corte conferma un principio già espresso nella nota sentenza del 2019 (Cass. Civ. n. 15895 del 13 giugno 2019) in materia di prescrizione estintiva.
Nelle (numerose) controversie incardinate dai clienti nei confronti degli istituti di credito per ottenere la restituzione di quanto assumono illegittimamente addebitato a titolo di interessi (in applicazione di un tasso ultralegale non pattuito piuttosto che per capitalizzazione contra legem) si era affermato il principio per cui la prescrizione del diritto del correntista fosse quella decennale, decorrente dalla data della chiusura del rapporto. Successivamente la stessa Corte di legittimità aveva introdotto la distinzione tra rapporti che presentavano uno scoperto di conto e quelli nei quali gli interessi erano addebitati come corrispettivo per l’utilizzo del fido concesso, evidenziando che nel primo caso le voci di accredito contabilizzate extrafido costituivano un pagamento e non tendevano alla ricostituzione della provvista.
La Cassazione ha confermato che la banca non è onerata di allegare l’esistenza del fido concesso ovvero di individuare e provare quali siano le rimesse aventi carattere ripristinatorio ovvero solutorio, essendo sufficiente che venga genericamente sollevata l’eccezione di prescrizione (parafrasando la pronuncia del 2019: “l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte”).
Lungi dal creare chiarezza, si ha l’impressione che anche la citata pronuncia possa creare problemi in termini di applicazione pratica, soprattutto con riferimento alla dimostrazione del carattere solutorio ovvero ripristinatorio dei pagamenti.

La terza pronuncia, sempre del marzo 2020, presenta profili di novità interessanti.
Il vaglio degli Ermellini riguarda anzitutto la questione dell’onere della prova nelle c.d. azioni redibitorie, promosse dalla clientela nei confronti degli istituti di credito.
La sentenza, censurando di fatto le prassi di alcuni Uffici territoriali, afferma anzitutto che “la legge non prevede che la richiesta ex art. 119 TUB, debba essere inoltrata prima della instaurazione di un eventuale giudizio innanzi all’Autorità giudiziaria” e che “costituisce violazione e/o errata interpretazione della legge considerare, nei giudizi avverso le banche, la richiesta inviata ante causam ex art. 119, quale condizione imprescindibile per l’ammissione della successive ed eventuali richieste istruttorie”. Pertanto, l’esercizio di tale facoltà non può essere limitato né alla sola fase ante causam né al completo decorso del termine previsto dalla suddetta norma. Ma la sentenza non si ferma qui.
La Corte arriva anche ad affermare, a corollario di quanto sopra, che “l’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. non rappresenta uno strumento alternativo rispetto a quello delineato dall’art. 119, co. 4, TUB, ma al più costituisce il mezzo processuale attraverso cui potrebbe esplicarsi il diritto conferito da quest’ultima norma, attinente al piano dei rapporti tra banca e correntista e, dunque, regolato dal diritto sostanziale”.
Il diritto riconosciuto dal Testo Unico al cliente è quindi più esteso di quello indicato da molte precedenti pronunce. E ciò anche sotto il profilo temporale, atteso che può essere esercitato entro 10 anni dalla data di chiusura del rapporto cui la documentazione contrattuale (moduli di contratto e/o estratti conto periodici) si riferisce.
Quanto statuito dalla Cassazione apre invero una nuova breccia sulla questione ancora aperta dell’onere della prova nelle cause c.d. “restitutorie”: come si concilia l’onere della prova dei fatti dedotti in giudizio (che incombe sul cliente-attore) con il diritto di ottenere copia della documentazione bancaria, anche attraverso un ordine di esibizione nel processo?

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