Il Tribunale Santa Maria Capua Vetere si pronuncia sulla questione con provvedimento in data 27 gennaio 2021
Il caso. Moglie e marito si sottoponevano ad una pratica di p.m.a.prestando il loro consenso come per legge. Dopo la fecondazione dell’ovocita, la coppia interrompeva la terapia per motivi di salute e, superati questi problemi, decideva che quattro embrioni sarebbero stati conservati presso un Centro medico.
A seguito della separazione tra i coniugi, il marito decideva di non acconsentire allo scongelamento degli embrioni onde evitarne l’impianto nell’utero della moglie separata. Quest’ultima si rivolgeva al Tribunale di Santa Maria C.V. con ricorso d’urgenza per chiedere l’impianto degli embrioni “avendo raggiunto 43 anni con riduzione delle possibilità di successo”. Il giudice del giudizio cautelare ordinava al Centro medico di “procedere all’inserimento in utero degli embrioni crioconservati e in custodia sulla persona della ricorrente”.
Il marito proponeva reclamo contro il provvedimento cautelare sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art.6 co. 3 della L.40/2004 nella parte in cui non prevede la revoca del consenso dopo la fecondazione, sostenendo che la revoca del consenso (non ammessa dalla legge se avvenuta dopo la fecondazione e negata dal giudice di prime cure perché ritenuta “non compatibile con la tutela costituzionale degli embrioni, più volte affermata dalla Consulta”) fosse in contrasto con l’obbligo di conseguire, in ogni stato e grado del procedimento, il consenso informato, come previsto nei trattamenti sanitari, ritenendo illegittima la norma anche perché in contrasto con “la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia”, chiedendo il rigetto del provvedimento cautelare anche per il venir meno dei requisiti soggettivi relativi alla scelta fecondativa, essendo intervenuta la separazione dei coniugi. Il reclamo veniva rigettato.
Il Commento. È innanzitutto interessante notare che il Tribunale di Santa Maria C.V. abbia rigettato l’eccezione di nullità per assenza del P.M. nel giudizio poiché non si controverteva “in materia di stato delle persone perché gli embrioni non sono persone giuridiche e non hanno capacità giuridica ai sensi dell’art. 1 c.c., ma sono destinatari delle sole garanzie previste dalla legge”.
Cosa rappresenta quindi l’embrione nel nostro ordinamento e quali sono le garanzie di cui parla l’ordinanza?
Nel 1996 il Comitato Nazionale di Bioetica ha definito il concetto di embrione, attribuendogli una “identità personale fin dalla fecondazione”, per cui l’embrione non ha capacità giuridica ma ha una identità personale, con la conseguenza dell’aver consentito gli interventi finalizzati alla “salvaguardia della vita e della salute dei medesimi” e il divieto di “produzione di embrioni a fini sperimentali, commerciali o industriali”.
I giudici del reclamo hanno avvertito l’esigenza di rileggere le parole contenute nei Lavori Preparatori della L.40/2004 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”), rilevando come dalla legge emerga il concetto del “diritto alla vita del concepito” fino a ricomprendere a seguito delle successive modifiche prima la p.m.a. c.d. eterologa e poi la diagnosi pre-impianto, al fine di valorizzare i problemi riproduttivi delle coppie italiane.
In una sorta di compromesso fra bioetica e diritto negli atti parlamentari del 2001 si legge che tra i presupposti fondamentali della normativa sulla p.m.a. vi sia il pensiero secondo cui “l’embrione umano è soggetto umano fin dalla fecondazione dell’ovulo”, con una identità personale e che è soggetto umano a seguito di fecondazione. Tale prospettiva è compatibile anche con quanto previsto nell’art. 1 L.194/1978, sulla interruzione volontaria della gravidanza, che riconosce il “valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.
Il diritto del concepito a nascere e il diritto della donna ad effettuare una scelta in senso contrario non sono in antitesi poiché la tutela, in entrambi i casi, nasce dall’art. 2 Costituzione e il minore ha una “legittima aspettativa alla nascita, in assenza, naturalmente, delle condizioni facoltizzanti, all’interno del nostro ordinamento, quali l’interruzione della gravidanza”. Da ciò scaturisce un tema etico importante: il bilanciamento possibile tra l’autodeterminazione della donna e il diritto a nascere del concepito.
Il legametra le due normative – procreazione ed interruzione – è nella tutela dei diritti fondamentali della persona, connesso al tema della salute della donna e del bambino, dell’autodeterminazione e del consenso informato. Per quest’ultimo profilo, il ricorrente (marito) si è doluto della carenza di continuità nelle informazioni e sulla opportunità di fornire il consenso alla pratica di pma in tutte le sue fasi. Il Tribunale ha citato al riguardo il D.M. n. 265/2016 (“Regolamento recante norme in materia di manifestazione della volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, in attuazione dell’articolo 6, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40.” pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 40 del 17 febbraio 2017), che stabilisce come esaustive le informazioni fornite in fase di applicazione delle tecniche di pma, senza necessità di integrare il consenso già reso.
Qui è il punto nodale della sentenza impugnata. L’art. 6 co. 3 su richiamato recita “La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni. La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo”.
Si pensi all’ipotesi in cui due compagniabbiano rapporti sessuali senza precauzioni contraccettive e come in questo caso certamente non si può ipotizzare che il padre possa “revocare il consenso” alla nascita del concepito, atteso che tale prospettiva decisionale è solo della donna. E in relazione alla adesione ad un progetto fecondativo volontario, che porta con sé tanti e dolorosi passaggi e un iter difficile che necessita di una consapevolezza forse anche maggiore rispetto a una procreazione normale, le problematiche prospettate dal reclamante a far nascere un bambino dopo la separazione dei genitori vengono affrontate dai giudici di S. Maria C.V. i quali hanno evidenziato il peso e le ripercussioni a livello psicologico che l’interruzione di un progetto procreativo possa avere anche sulla aspettativa della donna alla maternità.
Il testo dell’ordinanza è scaricabile qui